istaraniyeri – musiche migranti a roma e nuovi stornelli d’esilio

 in memoria di  Samb Modou e Diop Mor,

lavoratori senegalesi uccisi a Firenze dall’Italia razzista

“Sono straniero, sono ospite dell’Italia. corro verso la scuola per imparare l’italiano. sono africano, fuggo dagli animali che portano armi; non siamo africani, non siamo europei: ora di dove siamo, tutti noi?”

ISTARANIYERI – (Somalia) (qui il link per ascoltare il brano)

Con questo canto, composto da Geedi Kuule Yusuf (un giovane rifugiato originario di Mogadiscio, studente presso la scuola di italiano per migranti di Asinitas, Roma), si apre il CD Istaraniyeri – Musiche migranti a Roma, realizzato dal Circolo Gianni Bosio – Archivio sonoro “Franco Coggiola” di Roma (curato da Alessandro Portelli e Enrico Grammaroli, www.circologiannibosio.it).  Il CD è il primo volume della collana Roma forestiera, che prende il suo titolo da una vecchia canzone romana del dopoguerra, in cui si lamentava l’assenza di musica nelle strade della capitale, e soprattutto l’assenza della musica della tradizione, soppiantata dall’invasione della nuova musica americana: “Nannare’, perché, perché te sei innamorata/ de ‘sta musica americana?/ ma perchè te sei scordata che sei romana/ e li stornelli nun canti più?”[Roma forestiera, Libianchi – Granozio].

Come spiega Alessandro Portelli nel libretto che accompagna il disco, “Oggi è proprio la ‘Roma Forestiera’ dei migranti, dei rifugiati, delle ‘seconde generazioni’ a riportare la musica nelle strade di Roma”. Così i ricercatori del gruppo Roma forestiera si sono mossi per raccogliere i suoni  -e assieme ad essi le parole e le storie- degli artisti migranti che riempiono le strade, i tram, le metropolitane, e che portano nelle nostre vite un’umanità nuova e un nuovo repertorio di suoni e di cultura.

Sabato scorso, 17 dicembre 2011, mentre a Firenze l’Italia antirazzista sfilava a reclamare che “nostra patria è il mondo intero” (contraddicendo tanta retorica nazionalista a cui pure buona parte del popolo della sinistra non ha saputo sottrarsi nell’anno delle celebrazioni dell’unità nazionale), a ricordare che non esistono confini, che siamo tutt@ clandestin@, che bisogna chiudere i CIE e che bisogna chiudere casapound e togliere ogni possibile spazio di azione e visibilità pubblica ad ogni forma di razzismo e di fascismo, anche da Roma si è levata una voce, un’eco di risposta e di solidarietà, nel concerto di Roma forestiera organizzato  presso il Teatro Centrale Preneste. La coincidenza di date è stata del tutto casuale, eppure la casualità si è rivelata portatrice di un discorso comune, un ponte che da Roma a Firenze parla all’Italia di breve memoria per ricordarle quando “gli italiani” andavano con valigie di cartone, per ricordarle che il mito fondativo della nostra “nazione” vuole che un esule di nome Enea, profugo di terra in terra, sia approdato sui nostri lidi e, sposando la figlia di un re, abbia dato vita a un nuovo popolo. Come ha saputo dire con una chiara semplicità Moni Ovadia, presentando gli artisti migranti sul palco,  e come pure ci ricorda una canzone degli Assalti frontali (“oggi come oggi sarebbe un clandestino/ Enea ma dove vai? Enea ma dove vai?/ Senza il permesso di soggiorno per te saranno guai”). Nel segno di un’apertura e di un superamento dei confini e delle barriere (le stesse che, come ha ricordato Moni Ovadia, fanno sì che il popolo palestinese si costretto a vivere “per metà in una gabbia a cielo aperto e per metà in una prigione a cielo aperto”).

Sul palco si sono alternati i volti e le voci di Anatole Tah, interpete e percussionista ivoriano, di “Mamoste” Abdurrahman Ozel, rifugiato politico curdo (“Tutti hanno un paese, ma per noi curdi è diventato difficile”), di Hevi Dilara, anche lei rifugiata politica proveniente dal Kurdistan (il gruppo musicale di cui faceva parte ha subito l’arresto e la tortura: anche cantare in lingua curda è un atto illegale; uno dei suoi compagni purtroppo non ce l’ha fatta, ed è morto sotto tortura), accompagnata da Serhat Akbal . E poi Roxana Ene, giovane e promettente interprete di origini romene (ma ragazza ben integrata nel suo quartiere romano di residenza, tra la Casilina e la Prenestina), accompagnata alla fisarmonica da Valentina Brandazza, e ancora Isis Rizik, studentessa palestinese, Sergio e Janet, dall’Ecuador (“la musica mi ha dato la dignità”, ha ricordato Janet), Sushmita Sultana, dal Bangladesh. La serata è stata introdotta dall’esibizione del Coro Se…sta voce, il coro multietnico dei bambini e delle bambine della scuola elementare “Iqbal Masih” , coordinato da Attilio Di Sanza e Susanna Serpe:  un’esperienza didattica di integrazione frutto di una scuola pubblica che lavora nella direzione dell’intercultura e resiste agli attacchi di un ministero incapace di riconoscere le proprie eccellenze (http://www.sestavoce.it). A chiudere lo spettacolo, sul palco, un altro coro, “figlio” di questa stessa esperienza: il Coro multietnico Romolo Balzani, diretto da Sara Modigliani, che riprende e amplia le proposte del coro dei bambini ma si apre alle voci di tutte le età, dai 15 ai 99 anni, come si può leggere sulla sua pagina web  (http://www.sestavoce.it/romolo%20balzani.htm) . Nel coro Romolo Balzani ognuno insegna una canzone che ha portato dietro nel suo viaggio, ognuno impara una canzone di un’altra lingua e di un’altra cultura.

“Dimmi bel giovane/ onesto e biondo/ dimmi la patria/ tua qual è./ Adoro il popolo/ mia patria è il mondo/ il pensier libero/ è la mia fe’”: questo canto della tradizione libertaria recupera il suo significato originario e si fa portatore di un nuovo messaggio nel solco della tradizione del più autentico internazionalismo. Qui di seguito la sua interpretazione nelle voci del coro Romolo Balzani, che ha concluso la serata:

Dimmi bel giovane

Anche questo è un controcanto.

Informazioni su controCanto

Controcanto (un blog sulla storia e la memoria cantata). Qualche volta, dagli affreschi e dai quadri, i loro visi ci fissano. Ma dai libri quasi mai ne intendi la voce. Le loro generazioni hanno formato la lingua che parliamo, la sintassi dei nostri pensieri, l’orizzonte delle città, il presente. Ma la coscienza che anno dopo anno, mietitura dopo mietitura e pietra dopo pietra, essi formavano ai signori e ai padroni, quella coscienza non li riconosceva . Li ometteva. Confondeva le loro voci con quelle degli alberi o degli animali da cortile. Questi canti sono stati uditi – quando sono stati uditi – tutt’al più come voce di una cultura separata e arcaica; ma noi oggi sappiamo che essi esprimono un mondo di dominati in contestazione e in risposta. (F. Fortini, didascalia per lo spettacolo Bella Ciao, 1964)
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